Incontro con il professor Giuseppe Maino della New York Academy of Sciences, a cura della Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali (SIPBC ONLUS).
DOVUNQUE SI BRUCIANO I LIBRI, SI FINISCE PER BRUCIARE ANCHE GLI UOMINI
Heinrich Heine
I Sommersi e i Salvati – Per una storia dei genocidi culturali del Novecento
Il webinar con cui si è inaugurato il quinto anno di svolgimento del progetto “Beni Culturali: il Cuore dell’Umanità”, prende direttamente spunto da I sommersi e i salvati, ultima opera di Primo Levi.
Nella prefazione, con la lucida logica dell’esperienza vissuta, il grande scrittore afferma che, durante l’era nazista, praticamente tutta la Germania era a conoscenza dell’esistenza dei lager, ma aveva deciso coscientemente di ignorarla: il popolo, cui avrebbe dovuto essere delegata la conservazione della propria memoria storica, in questo caso, come in molti altri che purtroppo costellano il corso del “secolo breve”, l’aveva volutamente soffocata in un’aura di connivente e colpevole omertà.
Ne La memoria dell’offesa (Capitolo I), Levi osserva le diverse sfumature della memoria. Per gli oppressori la memoria dell’offesa è qualcosa da manipolare, cancellare o quantomeno modificare; per gli oppressi è pressoché lo stesso, ma ovviamente in senso diametralmente opposto: per evitare di soccombere sotto il peso schiacciante dei ricordi, la vittima cerca in tutte le maniere di aggirarli o di distorcerli. La conclusione è quindi che, in entrambi i casi, la memoria è imperfetta, ma non per questo va cancellata, va anzi preservata, sempre e comunque. La memoria umana è uno strumento meraviglioso, ma fallace, perché ci permette di restituire dignità a coloro che ne furono privati, scrivendo il loro nome nella storia e vincolando la nostra dignità affinché ciò che loro hanno vissuto non si ripeta mai più.
Ne La vergogna (Capitolo III), lo scrittore, con la voce del prigioniero di Auschwitz che fu, ci svela il rimpianto, il senso di colpa in cui si evolve l’angoscia degli oppressi: i sopravvissuti (i salvati) portano nell’anima il peso di essere usciti vivi dai campi di concentramento, sentendosi in debito con chi non ce l’ha fatta ed è morto per mano nazista (i sommersi). Levi stesso fu vittima di questa vergogna e la sofferenza, unitamente alla consapevolezza di far parte di quella stessa razza umana capace di torturare e segnare indelebilmente i propri simili o portò al suicidio, perché convivere con questa terribile realtà lo aveva logorato fino al punto di rottura. Levi è l’esempio del fatto che esperienze del genere, nella vita di un individuo, hanno un inizio, ma non una fine.
In Comunicare (Capitolo IV) l’autore spiega le difficoltà comunicative all’interno dei lager, dovute al fatto che le lingue diverse venivano tutte obbligatoriamente soppresse in favore del tedesco. In questo modo, oltre a essere privati di una parte sensibile della propria cultura, e quindi della propria identità, gli internati si trovavano nella situazione del bambino citato dall’autore, “…a cui nessuno aveva insegnato a parlare, e che di parlare provava un bisogno intenso, espresso da tutto il suo povero corpo”.
La Storia dei genocidi culturali del Novecento – Le parole del prof. Maino
Dopo questa premessa, che è un richiamo imprescindibile ad una delle pagine più sofferte ed intense della letteratura italiana ed europea, Giuseppe Maino, docente e studioso di fama internazionale presso l’Università degli Studi di Bologna, Coordinatore della Ricerca sui sistemi complessi dell’Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, Ricercatore Associato presso l’Istituto Nazionale Italiano di Fisica Nucleare di Firenze, oltre che Membro della Commissione di matematica applicata del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha parlato ai ragazzi di un’altra memoria, ancora più profonda e vibrante di quella di un singolo uomo o di un gruppo di individui, quella del cuore dell’umanità stessa, quella delle culture dei popoli.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, il regime nazista sequestrò agli ebrei internati i beni d’arte che facevano parte dei loro patrimoni famigliari, distrusse gran parte di quelle conservate nelle sinagoghe e deportò intellettuali e artisti nei lager, non prima di avere fanaticamente promosso, fin dal 1933, i roghi di libri, inizio di un vero e proprio programma di genocidio culturale per cancellare le voci, i saperi e i testi che non rispettavano l’ideologia hitleriana.
Dopo aver confiscato le cosiddette “opere d’arte degenerata”, colpevoli di incarnare valori opposti a quelli del nazismo, Hitler, forse per riscattare i propri fallimenti artistici, le incamerò in un bunker, con l’intento di conservarle per sé stesso. Ma, nel frattempo, il suo fedelissimo braccio destro, il famigerato Maresciallo Göring, raccolse una collezione d’arte ancora più preziosa ed esclusiva di quella del suo Fürer, passando così alla storia come l’uomo che riuscì a rubare il “già rubato” di Hitler. Verso la fine del conflitto, stretto nella morsa delle forze Alleate, Hitler diede ordine di far saltare in aria un castello nei dintorni di Monaco (Castello di Neuschwanstein), in cui erano state ammassate molte delle opere rubate dai suoi uomini (tra cui probabilmente il Ritratto di Giovane Uomo di Raffaello). Per nostra fortuna, venne poi recuperata proprio dal Castello di Neuschwanstein la Dama con l’Ermellino di Leonardo. La storia di queste offese al genio degli artisti, alla Bellezza ed alla storia umana è stato ricostruito, in epoca contemporanea, da pellicole di successo come Monuments Men e The Woman in Gold, cui va il merito di aver contribuito, pur con le velature ed i diktat dell’industria cinematografica, a divulgare presso il pubblico la coscienza che un genocidio può essere perpetrato sugli esseri umani così come, in maniera ancora più drastica e sottile, ai danni del loro vissuto, della loro identità culturale, di un patrimonio che non è più solo nazionale, ma piuttosto universale e, soprattutto, umano.
A testimonianza del fatto che le dittature si ripetono, tanto nei loro eccessi grotteschi, quanto nelle aberrazioni ideologiche, il prof. Maino ha presentato una serie di documenti fotografici sull’analoga e non meno drammatica esperienza di genocidio culturale che le popolazioni del Medio Oriente hanno vissuto tra il 2014 e il 2017. L’organizzazione terroristica di matrice jihadista salafita Daesh ha operato una sistematica ed abietta pulizia etnica e culturale tramite la distruzione di opere d’arte che facevano parte dell’importante patrimonio artistico ed archeologico della Siria. I siti iscritti alla Word Heritage List e alla Tentative List dell’UNESCO (Damasco, Palmira, Bosra, Aleppo, Krak dei Cavalieri e Cittadella del Saladino e altri) vennero inseriti nella Danger List (2013), perché considerati a rischio terroristico. Per lo stesso motivo, l’ICOM rese nota l’Emergency Red List of Syrian Antiquities at Risk.
In questo clima si colloca anche la guerra civile (iniziata nel 2011 e non ancora terminata) tra il regime di Bashar al-Assad ed i suoi oppositori, nel corso della quale l’impatto dei bombardamenti ha avuto conseguenze irrimediabili sulla vita dei civili, sui monumenti, le opere d’arte e su qualsiasi altra espressione di civiltà.
Quando nel 2014 l’ISIS proclamò il suo califfato, con Raqqa capitale, l’allora Direttore Generale dell’UNESCO Irina Bokova dichiarò da subito che risultava necessario “trattare questi attacchi alla cultura alla stregua di ogni altra questione di sicurezza internazionale, alla stregua di un’emergenza umanitaria.”
A seguito di ciò, la Corte Penale Internazionale dell’Aia concorda con Bokova, condannando l’estremista islamico Ahmad Al-Faqi Al-Mahdi (gruppo Ansar Dine in Mali) per la distruzione di nove mausolei nella città di Timbuctù. La sentenza del 2016 equipara finalmente la distruzione di un patrimonio culturale ad un crimine di guerra, perché di fatto venne combattuta una guerra tra gli estremisti e i cittadini che cercarono in tutti i modi di portare in salvo le opere d’arte sotto attacco. Distruggere una testimonianza di civiltà equivale a cancellare un popolo e tutta la sua cultura: un genocidio culturale è tanto grave quanto un genocidio umanitario, perché uccidere la cultura è uccidere l’umanità. Dobbiamo ricordarci che un patrimonio culturale è un patrimonio universale e, quindi, dell’umanità intera: a ogni opera d’arte che ci viene sottratta, o che viene decontestualizzata o distrutta, una parte di civiltà muore, una parte di noi muore. Parlare di sommersi e salvati ci permette di commemorare sia chi è morto insieme a una parte di civiltà durante i genocidi, sia chi rappresenta il trionfo della cultura, eterna rivincita dell’umanità sui fanatismi: in entrambi i casi, la memoria è la base su cui si possono costruire il nostro presente e il nostro futuro, perché dalla conservazione nasce la consapevolezza di quello che siamo.
Lucrezia TETI
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