SUA MAESTÀ, IL MONTÉBORE DELLA VAL BORBERA di Lorenzo Vay

Roberto Grattone è il fondatore della Cooperativa “Vallenostra” che produce il rinomato formaggio Montébore della Val Borbera: un territorio dell’Appennino Piemontese che possiamo sostenere, aiutando direttamente il lavoro di pastori e produttori (anche) adottando una pecora.



SUA MAESTÀ, IL MONTÉBORE DELLA VAL BORBERA di Lorenzo Vay

Martedì, 26 Maggio 2020 – Lorenzo Vay per Piemonte Parchi

Roberto, iniziamo con la presentazione del Montébore. Ci parli di questo formaggio ?

È un formaggio antico, le cui origini si perdono nei secoli, che prende il nome dalla piccola frazione di Montébore nel comune di Dernice (AL) tra la Val Curone e la Val Borbera. È stato letteralmente “resuscitato” grazie alle donne anziane del posto, in particolare alla signora Carolina, che avevano mantenuto il “sapere” dell’antica caseificazione. Attraverso la loro esperienza e la collaborazione dell’Istituto Caseario di Moretta e della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, si è ricostruita la tecnica casearia che ha riportato questo formaggio all’antico sapore.

Le prime sette forme sono state portate nel ’99 a Cheese di Slow Food e da li è partito tutto perché il formaggio ha attirato l’attenzione della stampa specialistica ed è stato adottato come “presidio“.  La sua preparazione è fatta con latte di vacca per il 60-70% e di pecora per il 30-40% e, facoltativamente, latte di capra fino a un massimo del 5 %. Al latte crudo, scaldato a 36° C, viene aggiunto caglio naturale.  La prima rottura della cagliata viene fatta la “lira” dopo un’ora e poi ne viene fatta un’altra fino a ottenere grumi della dimensione di una nocciola.

Il prodotto si mette a scolare dentro ai “ferslin”, le tipiche formelle a forma di cilindro e, nel corso della mezz’ora successiva, bisogna girarle 4 o 5 volte. Finita la scolatura si procede alla salatura manuale, rigorosamente con sale marino, che ci ricorda che storicamente da qui passava la “Strada del sale”. A questo punto, non resta che far riposare le forme per 10 ore circa, in un luogo fresco e asciutto e per finire, si mettono a stagionare, da tre settimane a quattro mesi, impilando tre forme dal diametro decrescente per dargli la forma tipica.

C’è da dire che la ricetta non è tutta qui: bisogna provare tutti i giorni a trovare la giusta trasformazione, rispetto alle caratteristiche del latte che si ha e rispetto alle caratteristiche del proprio caseificio.

A rendere unico il Montébore è anche la forma a piramide a tre piani: ci puoi spiegare il motivo ?

Il castello di Montébore aveva dei torrini fatti così e il formaggio l’hanno sempre fatto con questa forma. Era un posto molto strategico perché da lì potevi vedere la pianura fino a Voghera e, verso sud, comunicava con il genovesato, per cui Montébore era un posto ambito dai signori di un tempo che si scambiavano possedimenti. Poi il castello è crollato per una frana nel 1650 circa.

Ancora oggi, a Montébore, c’è poca terra produttiva ed è una zona povera anche come pascoli, dove c’è molto tufo, ma è un posto dove ci sono dei panorami stupendi. Pensa che attualmente ci vivono solo tre persone e un sacco di case sono in vendita, come tanti altri paesini dell’Appennino. Molti conoscono Montebore come formaggio e non sanno che ha preso il nome da questa frazione; per questo abbiamo deciso di recuperare anche la vecchia festa del paese per farlo conoscere.

Il latte che utilizzate arriva tutto dal territorio ?

Il territorio del Montebore comprende 30 Comuni tra la val Borbera-Spinti e la val Curone-Grue-Ossona. Il latte di pecora arriva quasi esclusivamente dall’azienda agricola “Stalla dei Ciuchi” di Cantalupo Ligure (AL) mentre il latte vaccino arriva dalle aziende agricole “Le due querce” del Comune di Mongiardino (AL) e “Zanardi” di Caldirola (AL).

Poi prendiamo anche un po’ di latte da produttori limitrofi, come per esempio a Parodi Ligure (AL) dai fratelli Como, perché purtroppo gli allevatori sono diventati pochi negli ultimi anni. Da quando abbiamo iniziato noi a fare il Montébore, hanno chiuso in parecchi. Questa è la situazione, purtroppo, e soprattutto in alcuni periodi, non c’è il latte sufficiente, soprattutto di pecora. Adesso lavoriamo anche latte di capra dell’azienda agricola del Castello di Roccaforte dove abbiamo il caseificio.
Per questo abbiamo differenziato la produzione: oltre al Montébore facciamo la Mollana della Val Borbera, solo di vacca; la Mongiardina che è una specie di toma riferita a comune di Mongiardino, delle Robiole sia di capra che di vacca; il Cadetto che è una toma di pecora; il Ruè, che prende il nome da una località di Mongiardino dove prendiamo il latte di vacca; il Reblò di capra e di vacca che è una rivisitazione del Reblochon francese che è fatto con il latte di vacca o di capra; la Borberina che è una specie di tomino da cucinare. Sono tutti formaggi piccoli che non hanno bisogno di grandi stagionature: solo il Montebore e il Cadetto si stagionano un po’ di più. Invece il Montebore Magnum, che è la forma più grande, è adatta ad una stagionatura più lunga.

Esiste un Consorzio del Montébore ?

Si, la sede è nel Comune di Dernice (AL) e il presidente è il sindaco del comune. Il Consorzio si occupa sostanzialmente di verificare il rispetto del disciplinare da parte dei produttori e della promozione del formaggio.

Attualmente siamo in tre aziende a produrre il Montébore: la cooperativa “Vallenostra” di Mongiardino (AL), di cui sono il fondatore, l’azienda agricola cascina Nerchi di Dernice (AL) e l’azienda agricola cascina Boschetto di Stazzano (AL).

Qual è la storia della tua Cooperativa ?

La Cooperativa “Vallenostra” di Mongiardino Ligure (AL) è nata nel 99 con l’obiettivo di recuperare una serie di prodotti che si stavano perdendo in Val Borbera e nelle valli limitrofe. Abbiamo iniziato con il Timorasso, impiantando la prima vigna, poi abbiamo continuato con la coltivazione delle fagiolane e piantato un po’ di mele carle; per il Montébore abbiamo iniziato in un vecchio cascinale che era di mio nonno, facendo le prove con un pentolone come facevano le donne; poi nel 2000 è nato il presidio Slow Food e nel 2002 è partito ufficialmente il caseificio e quindi oggi sono vent’anni che lavoriamo sul Montébore e sugli altri formaggi della valle.

Oggi abbiamo anche un piccolo spaccio aziendale al castello di Roccaforte (AL) e abbiamo aperto il Borber’eat a Vignole Borbera (AL) un piccolo punto vendita dei prodotti del territorio dove facciamo anche ristorazione.

In questo momento però la ristorazione è chiusa per la questione Covid. Stiamo cercando di capire cosa si può fare: forse la riapriremo in modo ridotto, facendo un discorso di piccola ristorazione ma a dirti la verità cerchiamo di capire cosa sta succedendo.

Ci puoi parlare dell’iniziativa: ‘Adotta una pecora da Montébore’?

Il progetto esiste da molti anni, ma in questi mesi ha avuto un riscontro eccezionale. Con un contributo di € 70 si può adottare una Pecora da Montèbore. Si riceve a casa il ‘Certificato di adozione’ e un cesto di prodotti di qualità, del valore equivalente alla quota di adozione, con i nostri formaggi.

Sul sito della cooperativa ci sono tutte le indicazioni precise: basta compilare il modulo con l’indirizzo a cui spedire il cesto e noi ci occuperemo di tutto il resto. Questo contributo ci aiuta direttamente a sostenere le spese di allevamento delle pecore e di produzione dei formaggi. Diventare “Amico del Montébore” significa sostenere un territorio e la sua economia, aiutando direttamente il lavoro dei pastori e dei produttori.

Parliamo ora di questo ultimo periodo: come è cambiato la vostra attività per questa pandemia ?

L’iniziativa dell’adozione di una pecora da Montébore è quella che ci sta facendo andare avanti, perché il mercato è andato a picco negli ultimi due/tre mesi. I ristoranti sono chiusi e i negozi hanno ridotto le vendite. Adesso stiamo vedendo un po’ di luce, ma sono stati mesi bui. Noi abbiamo sempre spedito a casa i nostri prodotti, a chi non riusciva a venire direttamente in azienda. Ma stiamo anche cercando di incrementare la vendita dei prodotti on-line.

Che aspettative avete adesso per la vostra attività ?

La speranza è la prima cosa che devo avere per portare avanti l’azienda, altrimenti smetterei subito. Abbiamo visto una sensibilità diversa in questi due mesi, rispetto ai nostri prodotti, probabilmente dovuto anche al fatto che la gente è a casa e ha più tempo. Certo a monte c’è comunque una storia costruita nel tempo, un qualcosa di visto e provato, ma comunque non è facile.

Più in generale, spero ci sia una ripresa per il nostro Appennino che poi, secondo me, è l’Appennino di tutta Italia, perché adesso è abbandonato. Spero arrivi qualche giovane ad abitare in questi paesi. Io adesso vivo in località Fubbiano in comune di Mongiardino, dove siamo solo io e la mia compagna. C’è tutto un paesino deserto. È una vita solitaria ma per me è di qualità migliore. Bisognerebbe avere qualche servizio in più, per esempio internet, per cui uno può lavorare anche da casa. Spero che in questa nuova fase ci siano degli spazi per noi e per tutta la Val Borbera perché se c’è un’economia sul territorio, tutti quelli che vivono qui ne hanno un vantaggio.

Perché avete aderito a “Parchi da gustare”?

Noi abbiamo aderito al progetto l’anno scorso, da quando è stato istituito il Parco Naturale dell’Alta Val Borbera. I vantaggi dobbiamo ancora un po’ valutarli, ma comunque credo che sia una cosa da portare avanti magari facendo cose che possano dare un riscontro concreto. La comunicazione, ad esempio, è molto importante per stare sul mercato.

Io penso sia molto importante avere un prodotto che rappresenta il territorio. Per questo condivido la scelta della “carne all’erba” come “prodotto bandiera” del Parco Naturale dell’Alta Val Borbera. Secondo me un parco è vivo se c’è chi alleva o fa altre attività agricole o in bosco: naturalmente sempre nel rispetto di tutte le regole. L’importante è che l’ente di gestione delle Aree Protette dell’Appennino Piemontese le porti avanti con l’aiuto di chi ci vive.

Le Aree protette dell’Appennino piemontese e il progetto ‘Parchi da Gustare’

Questa intervista è pubblicata nell’ambito del progetto ‘Parchi da gustare’ coordinato e promosso dal settore Biodiversità e Aree Naturali della Regione Piemonte, che ha l’obiettivo di portare ‘a tavola’ il grande patrimonio di biodiversità agro-alimentare connesso con i parchi naturali, promuovendo produttori e ristoratori delle Aree Protette che hanno sottoscritto un protocollo condiviso sulla sostenibilità delle loro attività e sulla promozione della cultura eno-gastronomica locale.

L’Appennino Piemontese è un territorio ancora autentico ricco di biodiversità, paesaggi, storia, cultura e tradizioni. Storicamente è sempre stato abitato dall’uomo che ha trasformato il paesaggio e utilizzato le risorse disponibili per un’economia esclusivamente familiare. Da un punto di vista ambientale vi era una perfetta integrazione tra pratiche contadine tradizionali e l’ambiente naturale. Con il boom economico del dopo guerra si è assistito ad uno spopolamento della montagna che ha portato ad una diminuzione di questo ecosistema agro-ambientale con una conseguente perdita di biodiversità sia agricola sia naturale.

Il ruolo dell’ente parco, quindi, è quello di gestire e promuovere il territorio in modo tale da integrare la tutela e la conservazione degli habitat e delle specie con le attività agro-silvo-pastorali, le quali possono diventare in questo modo anche uno strumento di gestione e presidio delle aree marginali e come tali devono essere anch’esse promosse e incentivate.

Vedi anche: Montebore, il formaggio di Leonardo da Vinci

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