Valeria Vacchini – La mia esperienza a Chaaria

L’Africa raccontata da Valeria, una ragazza tortonese che da sei anni si reca a dare una mano all’ospedale di Chaaria in Kenya.



La Chaaria di Valeria

L'ingresso dell'ospedale di Chaaria

Sono entrato in contatto con Valeria a settembre, durante la Cena solidale per raccogliere fondi da destinare all’ospedale missionario italiano “Chaaria Cottolengo Mission Hospital” in Kenya, quando, alla birreria Fermento di Tortona, lei e Lorenza hanno presentato le loro attività come volontarie presso l’ospedale gestito dall’Associazione Volontari Cottolengo Mission Hospital (Onlus) e diretto da fratel Beppe Gaido. Quella sera avevo raccolto molto “materiale“: appunti, video e foto, che però non hanno poi dato vita a nulla, sono degli inediti ai quali forse un giorno rimetterò mano, anche se dubito che lo farò perchè certe cose vanno fatte subito…

Ad ogni modo sono rimasto affascinato dai racconti che ho sentito ed ho chiesto a Valeria di scrivere qualcosa per questo blog. La risposta non è stata immediata, ma è arrivata ed è arrivata bene; quelle che seguono sono parole molto belle e coinvolgenti e sono state maturate durante le sei missioni che Valeria ha svolto finora a Chaaria. Io le ho lette con commozione e per me, che in Africa non ci sono mai stato, rappresentano un po’ quello che comunemente viene definito come il “mal d’Africa“.

Segnalandovi la possibilità di seguire Valeria sulla pagina facebook “Terapiste in viaggio: scivolando per il mondo“, vi lascio ora alle sue parole (i “titoletti” li ho aggiunti io per rendere più scorrevole la lettura).

Un’italiana in Africa

I colori. Raramente ne ho visti di così. Pennellate di cielo, terra rossa, natura verde da rimanere incantati.

Ogni cosa che si muove in questo scenario cattura l’attenzione: una capretta, un uomo in bicicletta, una donna con il suo bambino sulla schiena, raccolto in un pareo che gli fa da culla. Il mondo africano si snoda in dignitosa povertà davanti agli occhi che cattura.

L’aria africana colpisce subito, si appropria dei sensi in modo quasi sfacciato. E’ una sensazione di benessere, a prescindere. C’è sporcizia, disordine, odore di complicazioni e poi di nuovo natura, fiori, profumi di libertà e spazi infiniti.

La sensazione di essere arrivata a casa è immediata ogni volta, prima istintiva e poi sempre più consapevole. In sei anni non mi sono mai sentita nel posto sbagliato. Karibu è la parola che ti senti dire più spesso quando sei in giro o in ospedale: significa “benvenuto”. È Kiswahili, e la impari immediatamente.

Mettere piede in ospedale vuol dire essere pronti ad affrontare le emozioni più diverse. Un attimo prima sei felice, un attimo dopo demoralizzato. Ma nonostante le fatiche, i dispiaceri e le giornate difficili tutto questo non mi pesa affatto: mi alzo ogni giorno con un’energia così forte che cancella la parola stanchezza. E non mi costa nulla farlo. Ma non è sempre facile.

Sono nella mia stanza, ho ancora la divisa e la mascherina legata al collo. Dovrei lavarmi e cambiarmi, tra poco c’è il cenone.

Dopo ogni lunga giornata, la cena è il momento in cui ci siamo tutti noi volontari e ognuno racconta la propria giornata. Ci mettiamo a tavola insieme a riso e chapati, agli ostacoli incontrati durante la giornata e agli impegni che ci aspettano il giorno dopo. Si condivide tutto, dal caso clinico alla fetta di mango, ci si consulta sempre prima di prendere una decisione, come in una grande famiglia. Ci si sostiene a vicenda cercando di alleggerire la mente dopo giornate difficili che sembrano non finire mai.

Andrea, collega medico, sta suonando la chitarra, canta De Gregori. Le camere sono  vicine, i muri sottili mi permettono ad accompagnarlo con qualche nota.

Il Natale a Chaaria

Oggi è Natale, il mio secondo qua a Chaaria.

Non per forza per festeggiarlo in famiglia bisogna essere tra le mura di casa insieme ai parenti. Lo puoi fare anche a 5.400km di distanza, in un ospedale nel deserto, indossando una divisa verde e pranzando alle quattro del pomeriggio.

Non per forza per essere in famiglia devi stare insieme a genitori, nonni o fratelli, ma ti ci puoi sentire anche quando sei circondato da persone di cui conosci solo il nome ma con le quali condividi centinaia di vite.

Per me oggi è stato un Natale in famiglia, ci siamo sentiti uniti anche se lo abbiamo trascorso posti diversi: qualcuno in sala operatoria, qualcun altro in reparto a somministrare le terapie oppure altri ancora a far nascere bambini. Ma sempre insieme.

Una giorno particolare per tutti, anche per chi costretto a trascorrerlo in un letto di ospedale lontano da casa. Così i pazienti di Chaaria hanno trovato sotto l’albero un pranzo speciale mentre i bimbi, nati prima della mezzanotte, nuovi vestitini.

L’ospedale di Chaaria

Chaaria è un’ospedale all’equatore. Alla sera non puoi fare a meno di ritrovarti col naso all’insù: sopra le nostre teste si apre un cielo stellato da mozzare il fiato di quelli che in Europa è ormai impossibile ammirare, sembra schiacciarci talmente è vicino.

Il nostro cielo è quello del Kenya, della zona di Meru, a circa 500km da Nairobi. L’ospedale è raggiungibile solo attraverso 20 km di strada terribilmente sconnessa, dove si sprofonda nella polvere durante la stagione secca e dove si annega nel fango argilloso durante la “rainy season”…

I pazienti arrivano in moto taxi, in matatu o addirittura a piedi. Non c’è sole o pioggia che li fermi. Qua la sanità è a pagamento, se non hai soldi non vieni curato, ma Chaaria la porta è aperta a tutti.

Una delle cose che mi piace fare di più è osservare il fiume di gente che aspetta in sala d’attesa. Ogni giorno circa 300 pazienti varcano il cancello dell’ospedale. Siedono su panche di legno e aspettano composti.

Nessuno si lamenta per l’attesa o litiga per il posto, i bambini raramente piangono. Non hanno fretta, non hanno impegni, non devono correre e non sono in ritardo, semplicemente aspettano. Si crea un sottofondo di voci che rende fin piacevole l’attesa. Le donne spiccano nel grigio della stanza con i loro vestiti colorati, sembra quasi di osservare un quadro di Gauguin.

Oggi, l’ospedale, ha una capacità di circa 160 posti letto in enorme camerate, in cui a pochi centimetri l’uno dall’altro si sdraiano una cinquantina di uomini e, se necessario, pure due per letto. La gente in media viaggia per circa 6-8 ore per raggiungere il centro.

L’ambulatorio è molto frequentato, sono circa 60.000 le persone che in un anno vi accedono, con una media giornaliera di 300-400 visite ed è gestito da clinical officers (con la supervisione di un medico), mentre la media annuale dei ricoveri in ospedale è di circa 6500 persone. Nel 2015 sono stati eseguiti 2900 interventi. Operano dal lunedì al sabato per gli interventi programmati, con orari di lavoro a volte superiori alle dodici ora, mentre per le urgenze sono sempre disponibili ventiquattr’ore al giorno per sette giorni alla settimana. Hanno una nuovissima maternità, attrezzata anche per i bambini prematuri, con una media di 1500 parti all’anno di cui circa 650 sono cesarei.

Vengono offerti servizi di Medicina Interna, Pediatria, Maternità, Riabilitazione-Fisioterapia e Chirurgia Generale. E’ presente inoltre un programma di prevenzione, diagnosi e terapia dell’AIDS e delle malattie sessualmente trasmesse, un servizio giornaliero di vaccinazioni per i bambini e di prevenzione per le donne in gravidanza. Il Cottolengo Hospital Center comprende anche una casa per l’assistenza ai  ragazzi disabili, i “Buoni Figli”.

È il “regno” di fratel Beppe, che vi trascorre molte ore al giorno, alternando le operazioni chirurgiche alle visite dei pazienti esterni più gravi. Torinese di nascita, Africano per adozione, Beppe Gaido è un medico italiano che da oltre vent’anni dedica la propria vita al servizio dei più deboli, è il direttore dell’ospedale.

Chaaria

È difficile, quasi impossibile, definire Chaaria. È una realtà così forte, difficile tradurre  in parole scritte. O la ami o la odi, non esiste il grigio.

Chaaria è Ester, una nonnina con la bandana colorata in testa, da definire il ritratto della felicità. Ha un sorriso composto da quattro denti, ma così contagioso da sembrare il più bello di tutti.

Chaaria sono le urla delle mamme in compagnia delle doglie che aspettano di dare alla luce nuove vite.

Chaaria sono i vecchietti  ricoverati con la casacca azzurra abbinata ai loro occhi color mare. Ti guardano, sorridono e non parlano. Ma i loro sguardi raccontano, non servono parole.

Chaaria sono i colori delle divise dei pazienti, gli odori così forti che regalano mal di testa, i pianti dei bambini davanti ad un prelievo di sangue.

Chaaria sono i 180 dipendenti con cui fare amicizia è così bello e spontaneo da ritrovarsi a bere birre e ballare danze africane al pub del villaggio.

Chaaria è la povertà, quella estrema, in cui alcuni quello che possiedono sono un nome e pochi stracci. Una povertà in cui le case non hanno luce, acqua ed elettricità.

Chaaria è tutto quello che mai avresti pensato di vedere o fare nella tua vita.

Chaaria è la paura che non conosci davanti a casi gravi, pazienti complicati, in cui ti tiri su le maniche e fai, senza pensarci un secondo.

Chaaria sono gli instancabili camminatori che in silenzio, tutti i giorni, lasciano le impronte sui sentieri di terra rossa per raggiungere l’ospedale.

Chaaria è la sopportazione del dolore in silenzio, è quel grazie così potente da farti emozionare.

Chaaria è la gallina che il papà di un bimbo ti porta il giorno di Natale per ringraziarti.

Chaaria sono i sorrisi, le lacrime e i silenzi che parlano.

Chaaria sono i centinaia di volti che popolano la tua giornata. Sono quei nomi così strani che non riesci a ricordare, le mani dei parenti che nell’orario di visita portano un pugno di riso ai familiari.

Chaaria è l’appuntamento quotidiano con la sofferenza che si trasforma in forza. Sono loro che insegnano a te, puoi solo imparare.

Chaaria è Antony, che non sa perché, ma a otto anni ha un tumore tremendo del rene che gli ha praticamente riempito tutto l’addome.

Chaaria sono le amicizie tra i volontari, il sostegno quotidiano per affrontare le giornate. È quel filo che ci unisce anche quando rientri dal continente nero.

Chaaria è il pizzino dei pazienti sopra un rotolo di scotch “Valeria, no back to Italy. Still love you”

Chaaria è Beppe, Giancarlo, Suor Anna e tutte le sorelle che ti accolgono in questa grande famiglia. Sono le persone a fare i luoghi.

Chaaria è emozione, vita e coraggio. Ti avvolge, travolge e ricarica. Chaaria è fonte energia.

Ogni volta questa esperienza mi regala qualcosa di speciale. Qualcosa che raccolgo tra le mie cose e custodisco gelosamente.

Oltre Chaaria

Quest’anno, nei giorni lontano da Chaaria, l’Africa mi ha regalato nuovi posti e nuove persone. Mi ha permesso di riabbracciare quelle di sempre, impossibili da dimenticare.

A Gatunga, dispensario nella zona del Tharaka, ho conosciuto sister Joan, una di quelle persone che quando la vedi hai voglia di abbracciarle. Un’amica.

Ho lavorato con Super Cate (come piace chiamarla a me), dentista pavese con cui ho condiviso il viaggio, parte dei giorni africani ma soprattutto emozioni. Ho conosciuto una missione che profuma di famiglia, dove alla sera il mal di pancia arriva per le troppe risate.

A Tuuru, la mia prima casa africana, ho riabbracciato suor Adriana la mia guida, il mio esempio, la mamma di tutti i bambini, la fisioterapista che non si spaventa davanti a niente e che ha sempre una soluzione per tutto.

La mia Africa

Questa è la mia africa, la mia casa. Mai in vita mia mi era capitato di chiamare “casa” un posto diverso dalla corte di campagna nella quale sono cresciuta in Italia. Anche luoghi familiari e che amo profondamente non hanno mai meritato questo appellativo. Non so cosa ho trovato in più e di diverso rispetto ad altri posti.

Ho avuto momenti di sconforto, voglia di mollare tutto e tornare a casa. Non mi sentivo all’altezza, vedevo tutto più grande e più forte di me. Mi sono arrabbiata, pensavo di non farcela perché era troppo diverso e difficile alla realtà a cui sono, anzi ero, abituata.

Ma ho anche riso molto, ho imparato a fare e adattare, sia me stessa che le mie azioni. Ho creduto quando qualcosa iniziava a prendere forma e a funzionare.

A volte ho sbagliato, altre non ho agito e altre volte ancora penso di aver fatto la scelta giusta. Ho trovato un mondo diverso, complicato dove, se vuoi dare, devi essere disposto a modificarti e adeguarti.

Si impara a convivere con un cultura differente, si impara a convivere con i suoi ritmi e le sue credenze. Si impara a dare senza aspettarsi nulla in cambio. Da ogni condivisione si impara e si diventa più ricchi.

Come ogni anno porto a casa sguardi, canzoni, parole, abbracci, silenzi e sorrisi.

Come dice David “c’è una vita sola, si può essere stanchi, ma non tristi.”

Questo e molto altro porto via dalla mia Africa.

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Per approfondire

Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento segnalo il libro di Beppe Gaido e Maria Pia BonantePolvere rossa. Chaaria. Una piccola città della gioia e dell’amore nell’Africa equatoriale“.

Polvere Rossa è l’epopea dei poveri, dei deboli e degli esclusi che lottano ogni giorno per la sopravvivenza e cercano salvezza e cure a Chaaria. È anche la storia di chi ha deciso di mettersi in gioco e di dedicare la propria vita a chi soffre in questo piccolo angolo d’Africa. È una testimonianza di dolore, forza, dedizione e sacrificio.Beppe Gaido, medico appartenente alla congregazione del Cottolengo, è arrivato a Chaaria (Kenya) nel 1998, in un territorio assai lontano dal Kenya turistico e segnato dalla povertà, da un’economia di pura sussistenza. Vi ha trovato un dispensario che ha trasformato in un ospedale, aggiungendovi ogni anno un reparto. Il volume – scritto a due mani con Mariapia Bonanate – permette al lettore di conoscere a fondo questa vera e propria avventura di dedizione umana e cristiana, i suoi protagonisti, il suo scorrere quotidiano così come il susseguirsi di emergenze continue e di toccare con mano la presenza della Provvidenza.

Dell’ospedale di Chaaria è presente anche il blog, visitabile al link: http://chaariahospital.blogspot.com/

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