Marco Vimercati – Le Vendemmie alla Cantina Sociale

Marco Vimercati racconta, coi suoi occhi di bambino, il periodo della vendemmia e della pesa delle uve alla Cantina Sociale di Tortona. Correvano gli anni Sessanta…




LE VENDEMMIE ALLA CANTINA SOCIALE

Il racconto del periodo di vendemmia con gli occhi di un bambino
Testo e foto di Marco Vimercati

Per molte persone la vendemmia è un momento speciale. Per me forse ancora di più. La mia famiglia ha abitato dentro la Cantina Sociale di Tortona dal 1960 al 1988. La cooperativa fu fondata da mio nonno nel 1931 che la diresse fino al 1965, poi subentrò mio padre. Voglio spendere due parole per raccontare cos’era la Cantina negli anni 60: più che un’azienda era un microcosmo quasi autosufficiente. La Graziano era in costruzione e tutto intorno c’era molta campagna, se si esclude la Liebig, verso Scrivia, e la Dellepiane che scandiva la vita di tutti con le sue sue sirene di entrata e di uscita. La Cantina era molto più grande di quanto potesse sembrare dall’esterno: oltre ai tre capannoni e ai due portici dello stabilimento, oltre agli sconfinati piani interrati con le vasche, in cui da bambino mi perdevo come in un labirinto, oltre alle passerelle “segrete” che raccordavano i tre capannoni passando nei sottotetti, il complesso ospitava naturalmente gli uffici, la nostra abitazione e l’abitazione del custode, il Sig. Martino Mazzocato. Era bravo a fare molte cose, ma soprattutto era un esperto agricoltore ed evidentemente anche un baby sitter ante litteram, perché io ho vissuto intere giornate seguendo le orme di quest’uomo. Un potente trevisano coi capelli rossi, di una dolcezza incredibile. Mi spiegava tutto quello che faceva con una calma serafica, ma lavorando inarrestabilmente da mattina a sera. Dentro il perimetro della Cantina, che era enorme, avevamo un orto molto grande, una ventina di alberi da frutto, un piccolo campo di mais per le nostre galline che stavano in un bel pollaio in muratura con uno spazio recintato grande quanto una palestra. C’erano anche i recinti di tre cani. Davanti agli uffici, al piano terra, c’era un bel giardino con due cachi, molte rose, un banano al centro e tutto intorno, lungo i muri perimetrali, c’erano zinnie o gigli. Nelle zone più ombrose c’erano i mughetti e gli iris. Il tutto era miracolosamente portato avanti dall’inarrestabile Martino, che riusciva a ultimare ogni cosa anche se si muoveva sempre lentamente. Alla sera Martino chiudeva i cancelli, apriva i recinti dei cani, li alimentava col minestrone, sua moglie lavava gli uffici, si spegnevano le luci nello stabilimento e la Cantina si addormentava.

Questo ritmo regolare veniva turbato da eventi periodici: il pagamento dei soci, le riunioni del Consiglio Direttivo, ma soprattutto lei: LA VENDEMMIA.

Si sentiva arrivare già da parecchi giorni prima: si scoprivano le pigiatrici, si lavavano le coclee e le tramogge. Si apriva la pesatrice e si verificava il suo corretto funzionamento. Si assumevano stagionali: l’organico della Cantina in quei giorni aumentava in modo spropositato, erano operai addetti al carico e allo scarico o anche studenti addetti alla pesatura e alle misurazioni col mostimetro Babo, dove talvolta c’era un po’ di polemica per l’attribuzione del livello saccarometrico del mosto. Mio padre passava dallo stato di perenne arrabbiato allo stato furibondo. Gli impiegati della cantina, La Signora Deagatone, il Sig. Guerra e il Sig. Modenese, che io vedevo come parenti e coi quali mi intrattenevo spesso, diventavano intrattabili e correvano sempre di quà e di là. Se facevo loro una domanda mi rispondevano “vai a giocare” oppure “vai a fare i compiti”. Perfino Martino sembrava andare un po’ più veloce. Gli operai collaudavano le pompe, verificavano le chiusure delle vasche, azionavano i torchi e le pigiatrici per provare se tutto andava bene.

Nelle cantine venivano messi in bella vista i cartelli di pericolo esalazioni. Durante la fermentazione il rischio era elevato e i racconti di mio padre su bambini morti o rimasti ciechi per aver respirato anche solo un bicchiere di gas mi teneva ben lontano dalla tentazione fortissima di infilarmi nel labirinto buio trattenendo il fiato.

Quella fibrillazione che sembrava portare ansia dappertutto a me provocava un’eccitazione incredibile, e già mi pregustavo il periodo di divertimenti e giochi che sarebbe durato fino all’ultimo giorno di vendemmia. Dopo questi preliminari, finalmente arrivava il primo carro. Nei primi anni c’erano ancora molti traini di buoi, a volte anche qualche somaro. Gli escrementi delle bestie dei traini venivano raccolti da Martino e diventavano concime per l’orto, quindi Martino preferiva i traini animali. Ma a noi ragazzini naturalmente piacevano di più i trattori. Il Gioco consisteva nel saltare sui carri in movimento e appendersi dietro alle bigonce per piluccare l’uva e poi saltare giù senza che il guidatore se ne fosse accorto. Mi piaceva veder arrivare i viticoltori, molti li conoscevo di persona e mi facevano salire a bordo di proposito, con grande invidia dei miei amici che restavano a terra. In generale comunque si preferiva l’attacco piratesco, appostandosi nei fossi vicino alla cappelletta di San Marziano. Nei momenti più critici la Cantina restava aperta fino a tarda notte e così si poteva agire anche con il favore delle tenebre. Con i carri a buoi, con i trattori cingolati e con i vecchi Fiat (il 600 e il 601) la cosa era facile. Ma in quegli anni uscì il Fiat 215, che andava parecchio forte. Ricordo che una sera mi attaccai dietro a un 215 che stava tornando a casa. Quando imboccò viale Dellepiane accelerò molto, e io fui preso dalla paura di allontanarmi troppo, così saltai giù e presi una tremenda craniata sull’asfalto. Ricordo benissimo che la prima preoccupazione fu quella che nessuno mi avesse visto, per non fare la figura dell’imbranato.

Quella sera tornai a casa scornacchiato, erano già passate le nove, e trovai mia madre intenta a preparare panini per gli operai che non avevano ancora smesso di lavorare. Il fermento continuava, sottolineato dall’incessante rumore della spara-graspi. In un angolo del sedime infatti, c’era questo enorme mostro che sputava in continuazione. Alla fine della vendemmia c’era una vera propria montagna di graspi con un odore di leggera fermentazione. Io mi ci tuffavo dentro da una tettoria (naturalmente di nascosto, perchè i graspi erano intoccabili), almeno finchè non arrivavano i camion della lavorazione vinacce che li portavano a Modena, credo per la lavorazione della grappa.
Mio padre non si vedeva quasi mai perché era dappertutto: Nelle succursali di Volpedo e di Villaromagnano, nei centri di raccolta di Carezzano e di Montegioco… ogni giorno scoppiava un guaio: una guarnizione saltata, una pigiatrice in blocco, un eccessivo conferimento… era sempre in giro e non mangiava quasi mai. Una volta mia madre gli chiese: almeno stasera arrivi per cena? E lui rispose: “secondo te sono un indovino?”

Alla mattina era davvero una disperazione dover andare a scuola e lasciare tutto quel ben di Dio in balìa di se stesso. Ma i pomeriggi si ritornava in scena, a curiosare di quà e di là, a evitare gli schizzi improvvisi dei torchi, immersi in quel profumo ubriacante, prima più dolce, poi più volatile, che avvolgeva tutto il quartiere per un paio di settimane promettendo l’arrivo del vino nuovo.

Foto e testo: Marco Vimercati (Tortona-Genova)

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