Da Genova a Villaromagnano per sfuggire ai bombardamenti

Una nostra lettrice ci racconta in esclusiva la vita di una bambina genovese che trascorse gli anni della guerra nel paese della madre…



Da Genova a Villaromagnano per sfuggire ai bombardamenti

Penso che Genova sia stata una delle prime città italiane ad essere bombardata, gli Stati Uniti non erano ancora in guerra ci pensavano dunque gli inglesi e i francesi.

Allora abitavo all’inizio di Corso Sardegna, che in quelli anni ormai lontani era percorso da un treno merci che trasportava frutta e verdura al mercato centrale. Una notte in seguito ad un bombardamento molto intenso si creò una voragine molto grande e le rotaie del treno sì alzarono parallele verso il cielo. La paura fu tanta: vetri rotti, fiamme in molti appartamenti, tende ondeggianti nella notte più buia della mia vita.

In seguito a questa vicenda la mia famiglia decise, come molti altri a Genova, di abbandonare la nostra carissima città. Le macchine erano state requisite, quindi con un carro trasportato da cavalli spedimmo alcuni mobili e bauli carichi di vettovaglie. Gli adulti e io bambina molto piccola raggiungemmo Tortona e in seguito il piccolo paese d’origine della mamma, una piccola frazione sulle alture di Villaromagnano. Eravamo in nove: due famiglie unite nel cammino alla ricerca di pace e serenità. Anche se eravamo in guerra questo fu il periodo più bello e sereno della mia infanzia in mezzo a prati indescrivibilmente fioriti di tulipani spontanei gialli e rossi. Saremmo rimasti lassù sino alla fine della guerra.

Esisteva allora una diversità abissale fra la vita cittadina e quella condotta nei paesi di campagna, dove non esisteva acqua potabile. Si attingeva per gli usi domestici acqua dal pozzo, nel pozzo si calava anche tutto quello che doveva essere refrigerato dal pollo alla bottiglia d’acqua Vichy. Il pane bianco veniva confezionato in casa, cotto nel forno a legna della famiglia; il bucato veniva fatto in un grosso mastello di legno che serviva anche a turno come bagno settimanale, l’acqua era quella piovana che si raccoglieva in grosse cisterne. Tutto questo riduceva gli adulti a una vita pesante. Io bambina, invece, mi divertivo tantissimo: quel mondo era per me il paese dei balocchi; scoprii la neve, ad esempio, che non conoscevo ancora. Mi divertivo tantissimo a scivolare sul ghiaccio, a giocare a palle di neve, a fare le granite con la neve appena caduta.

I bombardamenti non erano dimenticati del tutto, ma qui erano più distanti. Era stata bombardata Villalvernia e dalle alture si vedevano le scie di fuoco create dalle bombe che cadevano su Alessandria. Anche a chilometri di distanza si sentiva il sibilo delle sirene e io incominciavo a tremare; quel tremito mi avrebbe accompagnato per anni. Durante le ore di coprifuoco veniva a trovarci un piccolo aereo, ogni sera. Per noi era diventato così famigliare che lo consideravamo un nostro amico, lo avevamo soprannominato “Peppino“. Al suo passaggio le luci si spegnevano e noi bambini andavamo a letto, mentre gli adulti giocavano ancora un po’ a carte servendosi della luce delle candele.

Negli anni trascorsi in campagna è sfociato il mio grande amore per gli animali. Amore che dura tuttora. I contadini erano molto duri nel trattare gli animali domestici: pungolavano i buoi adibiti al traino dei carri, tenevano i cani fuori casa legati da pesanti catene, i gatti dovevano sopravvivere mangiando quello che restava dalle ossa del pollo, ma quello che più mi spaventava era l’urlo terribile lanciato dal maiale che vedeva avvicinarsi i suoi assassini… Piangevo abbracciata alla zia, ma poi mangiavo volentieri i nuovi salamini che venivano serviti per Pasqua, durante le scampagnate nei boschi, dimenticando ogni tristezza. Questa povera vita era una vita bucolica: il gatto riusciva a raggiungermi nel letto, silenziosamente, senza bisogno di chiamarlo, il cane mi seguiva ovunque andassi ogni volta che riuscivo a liberarlo dalla catena che lo tratteneva.

Le donne non lavoravano fuori casa, cooperavano con il marito nel momento della vendemmia e della mietitura. L’unica attività per loro redditizia era la cultura dei bachi da seta. Maestosi gelsi coronavano le strade. Trascorrevo ore ad osservare quei vermetti bianchi che si ingrossavano nel giro di poco tempo mangiando foglie di gelso, il più delle volte raccolte da noi bambini.

In seguito tutta la nostra serenità ebbe fine, era arrivato l’8 Settembre. L’esercito italiano era sciolto. I militari fuggivano attraversando i nostri piccoli sentieri: cercavano abiti per non farsi riconoscere dai tedeschi. Dormivano nelle cascine ed erano sempre affamati e molto malconci. Nessuno era respinto, tutti trovavano ospitalità e conforto. Tutti pensavano ai propri figli lontani. Il cuore della zia era sempre molto generoso verso questi poveri ragazzi, suo figlio, mio cugino Sandro, era stato deportato in un campo di concentramento in Germania, con la sola colpa di essere nato in America e tornato bambino in Italia.

Un giorno verso la fine della guerra arrivò in paese un piccolo distaccamento tedesco, fu una grande paura per tutti. Noi dall’alto seguivamo le loro mosse, non appartenevano alla famigerata S.S. erano buoni e molto pacifici, uno di loro veniva a prendermi a scuola e mi riaccompagnava verso casa portandomi la cartella. La sua gioia più grande era quella di bere ogni sera il vino di qualche contadino da cui riusciva a farsi ospitare. Poi il tedesco si accorse del disagio e della paura che mi procurava la sua presenza, mi fece una carezza sui capelli dicendomi che assomigliavo a una sua bambina lontana e non lo vidi più.

La zia continuava a pregare per il figlio lontano. Non la vidi mai piangere, era molto forte. Un giorno un nostro amico di famiglia, genovese anche lui, bussò ai vetri della cucina annunciando che mio cugino Sandro, il figlio della zia, era sul ponte di Ridotto che arrancava a fatica ormai allo stremo delle forze. Fu un urlo generale e tutti di corsa lo raggiungemmo. Era tornato a piedi dalla Germania, era sporco pieno di lividi e contusioni; ancora oggi mi commuovo rivedendo il suo viso tumefatto e sporco di carbone. Era stato liberato dai russi, finalmente era a casa fra le braccia della zia che non smetteva di accarezzarlo. Sandro avrebbe portato quei segni di percosse tutta la vita, spesso urlava di notte risvegliandosi e mangiava in continuazione solo pane bianco, annusandolo prima, come fosse un fiore. Era stato il primo a rientrare dalla Germania e per questo tutte le mamme del paese e di quelli vicini chiedevano a lui notizie dei propri figli. C’erano ancora molti dispersi, alcuni di loro non tornarono più.

Improvvisamente in un giorno d’Aprile si sentì in lontananza un suono festoso di campane. Lentamente tutti i campanili dei paesi sottostanti si misero a suonare a festa. Radio Londra aveva annunciato la fine della guerra!

I partigiani erano entrati in Tortona cavalcando cavalli bianchi. Che giornata meravigliosa, tutti ci abbracciavamo festosi, si ballava suonavano fisarmoniche nella aie. Io ero felice ma mi restava in cuore un velo di malinconia: con la fine della guerra avrei lasciato i miei amici animali e i miei compagni di giochi per tornare a Genova.

Una lettrice di Tortona Oggi

Nella foto: Villalvernia 1944, un gruppo di sfollati con due componenti della famiglia Gatti. L’autrice del racconto è la bambina in primo piano, indossa un cinturone da soldato, quello del capitano che ha scattato la foto.

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